domenica 25 marzo 2018

Tengil - shouldhavebeens: scorrono nel sangue le stelle che moriranno

(Recensione di shouldhavebeens dei Tengil)


Il conflitto che da sempre accompagna l'uomo è quello della vita e la morte. In un certo modo mentre viviamo, cerchiamo a tutti i costi la possibilità di "ultra-vivere", di toccare, per pochi attimi, una sensazione d'immortalità. Cerchiamo una specie di connessione con l'universo, vogliamo sentirci parte di una logica che spesso ci sfugge, e vogliamo che in quei pochi secondi l'universo giri intorno a noi, come se tutto dipendesse da noi stessi, dalla nostra estrema felicità che finisce per contagiare tutto. Sono attimi fuggenti ma gli inseguiamo con tutto il nostro essere.

shouldhavebeens

shouldhavebeens è già di per sé un titolo molto significato. "Quello che potrebbe essere stato", quel spirale infinito di possibilità che sarebbero venute fuori se in ogni momento della nostra vita le nostre scelte ci avessero portato altrove e non dove siamo. E questa sensazione di emotività estrema è quello che nutre questo secondo disco degli svedesi Tengil. Questo disco è una trappola che ti porta su una dimensione dove tutto sembra bellissimo, eterno e felice per poi farti ricordare che purtroppo non è così, che anche se "respiriamo la luce eterna portando le stelle nel nostro sangue" quelle stesse stelle sono destinate a morire. Tutto è felice ma allo stesso tempo è irrimediabilmente triste. Tutto è magico come può essere magico un momento da perpetuare eternamente ma quella non è la realtà, quella non è la vera felicità. Per questo questo disco passa da quell'estasi di completa felicità a la nostalgia di sapere che tutto finisce e perisce. Potrebbe essere stato, potrebbe essere successo, poteva essere una vita diversa, ed invece siamo noi che lottiamo contro una logica che non abbiamo mai accettato, che ci è venuta imposta sin dal primo giorno nel quale siamo nati.

shouldhavebeens

Come vedete shouldhavebeens è uno di quei dischi che sblocca le porte, lasciando una via libera a tutta una serie di sensazioni e di pensieri. Punto assolutamente a favore dei Tengil. Se riescono a produrre quest'effetto è perché c'è una grandissima coerenza tra musica e parole, tra il loro modo di essere emotivi, poetici e dissacranti con i testi delle loro parole e quello che viene restituito dalla parte strumentale. Questo disco è un lavoro dove post harcore, shoegaze/blackgaze e tanti aspetti di atmospheric music si mettono insieme. Questo è un disco dove ricorrentemente si va riferimento al "rumore bianco" ed è proprio un'immagine fedelissima da quello che si vuole comunicare, da questi salti dentro del rumore, per poi uscire e capire quanto meravigliosa è la musica. Ecco, questo è un lavoro che esalta i contrasti, è quasi un disco borderline, dove diventa essenziale esagerare tutto quanto, sia la bellezza che la dissacrante verità. Diventa tanto necessario riuscir a creare dei paesaggi sonori bellissimi quanto portare questi paesaggi al limite del rumore fuori controllo. Per quello è anche un disco pieno di dinamica, di frase cantate, e quasi urlate, senza il soccorso di alcun istrumento per poi venire sommersi dalla parte musicale che fa diventare quasi intellegibile qualsiasi parola. Potrebbe essere un disco pulitissimo, potrebbe essere un disco rumorosissimo ma per fortuna non è nell'uno nell'altro. Perché così diventa vivo, reale, uno specchio di quel che siamo.

shouldhavebeens

shoulhavebeens è un disco che ti fa amare la vita, il mondo, la natura, l'universo, le idee poetiche come quello che c'è alla fine dell'arcobaleno, e proprio quando sei dentro a quest'estasi profondo ti ricorda che nulla di tutto ciò è per sempre. Che sia il nostro mondo che i nostri cari e noi stessi siamo destinati a morire. Per quello la musica dei Tengil è piana di contrasti, per quello regala dei momenti di bellezza sublime e altri dove il rumore è l'unica via percorribile. C'è qualcosa di più simile alla nostra vita?

Tengil

Pesco due brani che sintetizzano al meglio i pensieri che mi suggerisce questo disco.
Il primo è I Dreamt I Was Old. La formula della band viene messa subito in evidenza. Tutto deve arrivare con forza, con quella sensazione che tutto dev'essere pieno, esagerato, che il passaggio dalla felicità alla disperazione è breve e fragile. Che basta un nulla per trasformare il bello nell'orribile e viceversa. Che una vita dalla quale andare orgogliosi può trasformarsi in una catena di errori.
Il secondo è It's All For Springtime. Qua regge la ponderazione, le pause, le oscillazioni. Questo è un brano meraviglioso perché sorprende, perché ogni secondo che passa ci porta in una dimensione che non era immaginabile. E' un brano toccante dove il conflitto che sorregge tutto il disco è più presente che mai, dove la bellezza di avere a che fare con aspetti eterni viene spezzata via dalla certezza che in realtà nulla è eterno. Brano pazzesco.


shouldhavebeens diventa una riflessione su quello che è il nostro mondo, e anche questa è un'altra dicotomia fondamentale. Potrebbe sembrare che questo lavoro sia assolutamente intimo e personale, che sia l'urlo di una persona complessa ma alla fine è soltanto quello che siamo, quello che è il nostro mondo, l'idea dalla quale cerchiamo sempre di sfuggire. I Tengil ci regalano un disco reale che ha senso di essere grazie alla veracità di quello che ci racconta. Viviamo per vivere o per sfuggire alla morte?

Voto 9/10
Tengil - shouldhavebeens
Prophecy Productions
Uscita 13.04.2018 

lunedì 19 marzo 2018

Rotting Christ - Their Greatest Spells: guida alla definizione di una grande band

(Recensione di Their Greatest Spells dei Rotting Christ)


In tutta onestà devo dire che i dischi compilation di grandi successi mi hanno sempre spiazzato un po'. Riconosco che la possibilità di mettere una specie di punto e di guardarsi indietro per fare il punto della situazione è un privilegio più che meritato per tanti gruppi ma d'altra parte credo che si perda un po' il senso principale di qualsiasi disco, perché dal mio punto di vista è limitante pensare soltanto a una manciata di canzoni piuttosto che a quello che può essere un intero lavoro. Naturalmente è molto più facile fare certi brani belli piuttosto che fare interi dischi bellissimi. Ma come capita in questi casi è importante che dietro a un "best of" ci sia un criterio importante, un ragionamento artistico che dia un senso a tutto il lavoro.

30 anni di carriera e 12 dischi in studio sono senz'altro una giustificazione più che valida per guardarsi indietro. E' quello che capita con i greci Rotting Christ che hanno deciso di mettere insieme 32 brani del loro passato più un nuovo inedito dando vita a un disco doppio di più di due ore e mezzo di musica. Il lavoro è stato intitolato Their Greatest Spells. Questa estrema durata di questo lavoro ci fornisce una chiara indicazione su quello che è l'intenzione della band che non è andata a scremare radicalmente ma ha scelto una track-list che potrebbe perfettamente essere quella da proporre dal vivo. Un'altra indicazione fondamentale per affrontare quest'opera è il fatto che l'ordine col quale sono stati selezionati i brani non corrisponde ad un'evoluzione cronologica permettendo così una lettura particolare. L'aspetto che viene fuori con maggiore chiarezza è il come la band riesce a avere sin dai primi passi fino agli ultimi lavori una linearità dentro alla propria proposta. Com'è naturale molte cose sono cambiate in 30 anni, e per fortuna è così, perché la staticità non paga mai, invece l'evoluzione diventa preziosa. Ma nel caso dei greci quest'evoluzione non ha mai stravolto il loro discorso musicale, al massimo l'ha affinato.

Their Greatest Spells

Un'altra lettura che viene fuori ascoltando Their Greatest Spells è quella di capire perché i Rotting Christ sono una band di riferimento nel metal degli ultimi 30 anni. In altre parole, per un neofito che vuole approcciarsi alla musica della band, capendo pregi e difetti, questo disco lascia chiaro tutto quanto sin da subito. Anzi, bisogna dire che di difetti, tranne se si fa una lettura soggettiva, non sono molto presenti. Questo discorso non è mirato a fare un ragionamento "campanilistico" ma si basa soltanto sulla consapevolezza di stare parlando di una band che ha una personalità inuguagliabile. Questo disco permette di capire quali sono le caratteristiche che finiscono per definire la musica degli ellenici. Questo metal che dalle prime indicazioni sembrava accostarsi a uno dei generi più in voga a fine degli anni 80, cioè il death, per poi distanziarsi da quel tronco andando a prendere caratteristiche proprie del loro posto di provenienza. Insomma, possiamo inglobare tutto quanto dietro alla definizione di dark metal, cioè un genere dove diventa assolutamente fondamentale il mondo sonoro che lo giustifica. Dentro a tutto questo, questa specie di spiritualità oscura, non sono necessari eccessi o estremi. La musica arriva diretta, naturale ma non per quello scontata. Questa è la chiave del successo della band, quella capacità di essere unici ma nello stesso tempo di non fare nulla di così complesso da dover interpretare soltanto dopo ripetuti ascolti.

Their Greatest Spells

Their Greatest Spells è dunque un modo perfetto d'approcciarsi alla musica dei Rotting Christ ma è, anche, una guida  fondamentale per capire come dev'essere fatta la musica, come la formazione di una personalità musicale sia un processo complesso ed interessante, come tutta la strada intrapresa porta a una meta che non sempre è chiara e definita quando s'inizia e che, molto spesso, è molto più elevata di quello che si credeva.

Rotting Christ

Come detto prima questo disco ci regala un nuovo inedito e dunque mi focalizzerò ad analizzare solo quel brano, visto che tutti gli altri erano già conosciuti al grande pubblico.
Il brano in questione s'intitola I Will not Serve. Quando si aggiungono nuovi brani a delle raccolte come questa c'è sempre il rischio d'inserire qualcosa che non è all'altezza del resto del materiale ma in questo caso non è così. Questa canzone permette di capire perfettamente la personalità della band, questa oscura spiritualità che poteva solo nascere in Grecia regalandoci una grande profondità mitologica.


Their Greatest Spells non è soltanto un "best of" ma è una racconta di fotografie sonore che percorrono i primi 30 anni dei Rotting Christ. Mai scontati, mai superati, sempre pronti a dare quei piccoli salti per essere da una parte in sintonia col passaggio del tempo, e d'altra per far capire che la loro musica è sempre sopra ai calendari, qualcosa che forse in pochi possono affermare.

Voto 8,5/10
Rotting Christ - Their Greatest Spells
Season of Mist
Uscita 23.03.2018

domenica 18 marzo 2018

Formalist - No One Will Shine Anymore: il dissacrante gioco dell'onestà

(Recensione di No One Will Shine Anymore dei Formalist)


Se c'è un elemento che molto spesso va a regalare tanti spunti positivi nel mondo della musica questo è quello della condivisione. La capacità di mettersi a confronto con altri musicisti non è che un bene, perché in questo modo si riesce a trovare dei punti di visti diversi da quelli che si ha normalmente. In certi casi da questo tipo d'interazione nascono delle collaborazioni molto positive che ingrandiscono ulteriormente l'orizzonte musicale. Ci sono tanti esempi del genere, di lavori nati grazie all'interazione di musicisti che ammiravano mutuamente i lavori di altri musicisti. Infatti se c'è qualcosa che non dovrebbe mai fare parte della musica è lo spirito di competizione.

I Formalist non solo sono una realtà italiana, ma sono anche una band che mette insieme una serie di musicisti di quattro progetti molto importanti come Forgotten Tomb, Viscera/// e Malasangre, in altre parole quello che normalmente viene definito come una super band. Dal mio punto di vista, quando accadde qualcosa del genere ci deve sempre essere una giustificazione artistica, questo perché non c'è tanto senso di fare più o meno le stesse cose che vengono fatte nei progetti di provenienza. Per quello c'è un occhio di riguardo particolare nei confronti di No One Will Shine Anymore, primo disco di questo gruppo. A questo punto, e avendo fatto tutte queste premesse, mi sembra molto importante dire che l'ascolto che ho dato a questo disco non è un ascolto comparativo con le altre band ma, a quanto possibile, un ascolto che abbia valenza solo e soltanto sul disco in questione. Arrivati a questo punto devo dire che una cosa che rimane molto chiara sin dall'inizio è che i Formalist hanno le idee molto chiare. Sanno cosa vogliono comunicare e lo fanno molto magistralmente. Il loro è un disco nichilista che non ha, neanche lontanamente, l'intenzione di risultare piacevole o colorito. Vogliono fare un disco dissacrante e ostico, e quello è quel che ci viene restituito.

No One Will Shine Anymore

Un altro appunto fondamentale da fare su No One Will Shine Anymore è che si tratta di un disco di solo tre lunghi brani. Questa è un'informazione fondamentale per capire come si muovono i brani, come vengono strutturati in modo di inglobare tutte le sensazioni volute senza lasciare spazio a interpretazioni alternative. I Formalist vogliono dimostrare la loro posizione assolutamente estranea al mondo attuale, un mondo che non soltanto fa parte della loro realtà ma viene anche rifiutato e dissacrato. Musicalmente questo si traduce con l'ausilio dello sludge, del post metal e di certi elementi drone. Insomma, un disegno musicale che diventa un fedele riflesso delle intenzioni della band e che trova anche ulteriori conferme nelle tematiche trattate. 

Se c'è qualcosa da dire su No One Will Shine Anymore è che siamo di fronte a un disco onesto. Facendo una comparazione con una tipologia di persone esistenti questo disco dei Formalist sarebbe uno di quei personaggi che non si curano mai di dire quello che veramente e onestamente pensano, senza badare a quello che il loro modo di comportarsi può provocare. Penso che tante volte è meglio avere queste persone in giro piuttosto di altre che di fronte si fanno gentili e simpatiche e dietro si divertono a sparlare. Infatti questo disco fa esattamente lo stesso effetto, per qualcuno sarà un disco eccessivo e difficile da digerire, per altri sarà un'opera trasparente e senza alcun secondo fine da quello di scuotere le coscienze.

Formalist

Come detto in precedenza questo disco è composto da solo tre brani, per quello approfondisco solo uno dei tre.
Quello che ho selezionato è Foul, brano centrale di questo lavoro. In un certo modo questo brano rappresenta l'equilibrio in questo intero lavoro. Non è grintoso come il primo, non è riflessivo come il terzo. E' un brano che si trascina essendo in perfetta linea con i brani doom  contaminato con elementi sludge e andando qualche volta a sconfinare con il drone. Come succede generalmente con brani di questo genere si viene circondati e avvolti in questa spessa nebbia musicale dalla quale è impossibile uscirne fuori.


No One Will Shine Anymore non è una minaccia, è una realtà. E' un disco che vuole sottolineare quanto è patetica la vita di chi sente di aver vinto tutto quanto perché "popolare". Ma il problema maggiore è che molto spesso sembra che questo deva essere l'unico scopo nella vita di ognuno. Sempre essere sotto i riflettori. Il dissacrante messaggio dei Formalist arriva diretto, senza giochi di parole o quant'altro. Bisogna prenderlo e accettarlo, perché la verità è sempre preziosa.

Voto 8/10
Formalist - No One Will Shine Anymore
Wooaaargh/Toten Shwan Records/Third I Rex
Uscita 16.03.2018

giovedì 15 marzo 2018

Rotting Sky - Sedation: in mezzo al rumore, tanta luce

(Recensione di Sedation di Rotting Sky)


Nei giorni nostri diventa sempre più difficile trovare il tempo per buttarsi di capofitto dentro a qualcosa. Questo vale sia dalla parte partecipativa, cioè facendo parte di un progetto, che da quella di ascoltatore o osservatore. Il problema grande di fronte a questo limite è che molto spesso affrettiamo i giudizi alla poche cose che riusciamo ad ascoltare senza riuscir ad avere la dimensione reale e totale di un determinato progetto. Come se ci fermassimo alla lettura di un paio di paragrafi di un libro, escludendo così la possibilità di avere a che fare con un capolavoro. Siamo sempre più multitasking, andando purtroppo a fare tanto in modo superficiale e poco con la giusta attenzione dovuta.

L'idea di un doppio sguardo profondo è quello che c'è alla base di Sedation dei Rotting Sky. Il primo è quello della Sentient Ruin Laboratories che ha avuto la capacità di riscattare un disco interessantissimo che ormai sembrava destinato a non avere lunga vita, a rimasterizzarlo e rilanciarlo con una nuova luce. Questo perché delle copie che originalmente circolavano di questo disco uscito nel 2014 ormai nessuna era più rintracciabile. Ma per spiegare il perché della bontà di questo gesto dobbiamo andare a parlare del secondo aspetto fondamentale di questo disco:
Sedation è un lavoro che nasconde le sue pietre più preziose nel profondo. Fermarsi alle prime impressioni che vengono fuori dalle prime due canzoni è un assoluto errore. Tutta la complessità di questo lavoro viene apprezzata ascoltandolo per intero e avendo a che fare con i contrasti che illuminano l'integrità di questo progetto. E' come tutto lo squilibrio iniziale trovasse il suo perché nella conclusione di questo lavoro, come se tutto il rumore presente smettesse di essere rumore per trasformarsi in musica e luce. Tutto grazie a un'impronta assolutamente personale che governa tutto quanti.

Rotting Sky

Infatti un'altra informazione da tenere assolutamente in conto è il fatto che Rotting Sky è un progetto personale, una one man band, e come di solito capita in questi casi tutto quello che viene dentro a Sedation è un compendio dell'avventura musicale del suo creatore, T. Mesing. E' per questo che questo disco riesce a mettere sullo stesso piano il black metal, il noise, il drone e qualche sfumatura industrial. In un certo modo la formula che c'è dietro a questo disco è quella di dimostrare che ci sono diverse vie per arrivare a uno stesso risultato. La prima parte di questo lavoro è brutale, sporca, quasi oppressiva. La seconda, invece, è ipnotica, è molto più ricercata, sembra quasi essere docile senza mai esserlo per davvero, ma entrambe queste parti hanno un unico grande scopo, quello di imprigionare l'ascoltatore in un vortice di sensazioni, in un fiume che puntualizza uno stato che è tutto tranne quello normale, ma in un certo modo diventa un modo di spronare l'ascoltatore, di farle capire che questo stato di annientamento è qualcosa di permanete e di quotidiano ma non riusciamo a rendercene conto perché è sempre presente e lo digeriamo a piccole dose. Due vie che dimostrano come può essere il nostro mondo, cioè brusco e senza scrupoli o furbo e ammagliante, inseguendo sempre un unico scopo: governarci ed usarci a piacimento. 

In un certo modo la vita è un gioco ma le sue regole non sono chiare fino in fondo, o si rischia d'interpretarle in modo diverso asseconda di chi c'è dietro. Per quello chi è al potere ha capito che questo gioco deve essere portato avanti con le sue proprie regole, illudendo però tutti gli altri, facendoli credere che ognuno è patrone della propria vita quando in realtà non siamo altro che pedine nella scacchiera di qualcun altro. Per riuscire a portare avanti questo piano veniamo sedati in diverso modo.Ecco, questo è quello che, per me, ci racconta questo Sedation che diventa a tutti gli effetti un disco di rivoluzione e di contrasto con la realtà. Il cielo di Rotting Sky sembra più blu che mai ma nasconde il marcio più profondo che c'è.

Avevo già anticipato che questo è un disco che si sviluppa che ha due parti molto diverse e che, per me, tocca il punto più alto ed interessante nella seconda metà.E' per questo che sottopongo ad un piccolo approfondimento la terza traccia di questo disco dove si verifica questo cambio tanto drastico quanto prezioso.
Tyrants of Sedation è il titolo del brano e nei suoi dodici minuti di durata prende delle direzioni impensabili, come se in una singola traccia potessero vivere svariate tracce. E' un brano che parte con un sovraffollamento di suoni, di rumore, di urla e poi.... poi diventa meraviglioso, come se dopo sollecitare al massimo, quando ormai si sono esaurite tutte le forze, si abbraccia un mondo incredibile. Dal noise misto al black metal  si passa al post rock  che sconfina quasi con lo shoegaze e con un drone che genera uno dei paesaggi sonori più intensi di questi ultimi mesi. Un brano capolavoro che racchiude l'essenza di questo lavoro.



Sedation potrebbe sembrare un disco ostico, drastico nella sua potenza sonora che non lascia grandi spiragli aperti, nel suo modo di essere dissacrante di fronte alla realtà che ci tocca vivere. Ma invece è un disco pieno di bellezza, di quella bellezza che è riservata a pochi privilegiati, a quelli che riescono a guardare con occhi profondi. Per fortuna c'è chi si sforza a riportare sempre alla luce dei progetti come Rotting Sky perché sono fondamentali per tutti noi e per chi ama, veramente la musica.

Voto 9/10
Rotting Sky - Sedation
Sentient Ruin Laboratories
Uscita 09.02.2018

mercoledì 14 marzo 2018

Škan - Death Crown: lo spirito e null'altro

(Recensione di Death Crown degli Škan)


La modernità sembra essere una macchina senza freni che mangia tutto quello che c'è intorno omologando quando più possibile tutto quello che viviamo. Ne abbiamo dimostrazione nel modo nel quale le risorse del nostro pianeta sembrano essere utilizzate senza alcun scrupolo, non pensando assolutamente alle future generazioni. Ne abbiamo dimostrazione nella mancanza totale di rispetto, e non solo, verso le popolazioni autoctone di un posto piuttosto di un altro. Non ci interessa per nulla salvaguardare la loro identità, la loro cultura, il loro modo di vivere. Ed è un atteggiamento assolutamente sbagliato perché perdiamo la possibilità di aver a che fare con la loro saggezza.

Škan

Škan non è soltanto il nome della band della quale vi parlo quest'oggi. Škan è una definizione delle loro intenzioni musicali, del loro modo di concepire la musica. Il loro nome viene dagli indiani Sioux e sta a indicare non soltanto l'occhio di riguardo verso questa cultura ma anche l'importanza della spiritualità, a prescinder dell'accostamento religioso che ognuno voglia dare. Partendo da questa premessa diventa molto più semplice entrare in sintonia e capire fino in fondo il loro primo LP, intitolato Death Crown. L'aspetto fondamentale che bisogna sempre tenere in mente è che siamo di fronte a un disco che cerca, in ogni singolo momento, di rendere questa lettura spirituale di un qualcosa che va molto oltre la singola musica. Le note di questo disco permettono di farci capire che le convenzioni sono sempre dei limiti e che l'ignoto non è soltanto una realtà ma molto spesso diventa anche una barriera insuperabile da parte degli essere umani. Per quello questo disco prova a buttare giù le convinzioni affrontando anche delle tematiche un po' più complesse.

Death Crown

Musicalmente non è semplice definire la musica di Death Crown. Sarebbe molto riduttivo parlare di death metal o black metal perché c'è molto di più nelle note di questo disco. C'è un aspetto quasi etnico senza perciò andare incontro a delle sonorità folk o ambient. Oltre a questo se c'è qualcosa che unisce tutto quanto è la voglia di raccontare l'oscurità, di parlare della morte come un aspetto che non sempre ha avuto lo sguardo necessario e che merita di essere studiata, vista e vissuta anche con altre occhi, come veniva fatto da vecchie etnie. Tutto questo grazie a uno spirito che s'impossessa della musica della band da inizio a fine. A contribuire a questa sensazione c'è il gioco sempre presente tra parti elettriche e quelle acustiche, tra i momenti più spinti e decisi e quelli più lenti e riposati. Ma anche dentro a questa dinamicità non ci sono mai dei dubbi su quello che è la linea seguita dalla band. Cioè quest'approccio molto sentito verso questa profondità spirituale, verso questo sguardo che vuole vedere la musica come quello che è: cioè uno strumento per universalizzare dei messaggi, che devono arrivare precisi e sicuri a tutti gli ascoltatori. E' qualcosa che prescinde dalle lingue, dai generi, dai modi nei quali si suona. Arriva e basta e questo è il grande pregio degli Škan, capaci di spiegare al meglio quello che vogliono spiegare con questo disco.

Death Crown

Death Crown è anche un disco validissimo per tenere presente un altro concetto, cioè quello che la formazione mentale e spirituale di ogni essere umano dovrebbe avvenire in piena libertà, avendo la possibilità di percorrere le strade più congrue ad ognuno senza alcuna imposizione. Purtroppo sappiamo che la nostra realtà è assolutamente opposta. Gli Škan riescono a generare tutte queste riflessioni, e questo ha un valore immenso che fa capire la buona riuscita di questo bell'album.

Death Crown

Due brani selezionati per voi.
Father Qayin, che permette molto fedelmente di capire la dimensione intima di questo disco, soprattutto grazie a quei frammenti acustici che parlano di solitudine, di notte fonda, di fuoco in mezzo al bosco. E poi c'è il trucco, la grandezza che prende il brano per portare questa dimensione a ognuno di noi.
For the Love of Death, brano più esteso, chiusura grandiosa di questo lavoro. Uno dei classici brani che piano piano che vanno avanti ti avvolgono e non ti lasciano più. Un brano che diventa uno dei punti più alti di questo lavoro grazie al modo nel quale si sviluppa e ci parla delle intenzioni della band. Monumentale.

Death Crown

Death Crown diventa così un manifesto, un disco che parte dall'intimità per poi situarsi in tutt'altra dimensione. Questo è un viaggio molto personale e molto toccante. E' un modo di far vedere e capire che il mondo è complesso e va capito nella sua intera complessità. Bellissima prova degli Škan che vi invito ad ascoltare in modo disinvolto e aperto.

Voto 8,5/10
Škan - Death Crown
Ván Records
Uscita 13.04.2018

martedì 13 marzo 2018

Wyrmwoods - Earth Made Flesh: il pioniere nell'ignoto

(Recensione di Earth Made Flesh di Wyrmwoods)


Quali sono i confini della musica? Esistono veramente? Che cosa può essere considerata "musicale" e che cosa non può esserlo? Rispondere a queste domande è veramente limitante oltre che a difficilissimo. Generalmente si suole fare la differenza tra quello che è la musica e quello che è il rumore ma nel corso degli anni parecchi musicisti ci hanno dimostrato che è possibile fare musica con i rumori. E' indubbio che nel corso degli anni il concetto di musica ha intrapreso un'espansione non indifferente e continuamente vengono fuori nuovi generi e nuovi modi di fare musica, e capita anche che dei musicisti regalino nuove interpretazioni e nuovi modi di comunicare reinterpretando la musica con elementi nuovi. Per chi segue questo blog sicuramente è chiaro che ogni volta che vengo a conoscenza di "sperimenti" del genere il mio entusiasmo non può che essere grande.

E' per quello che avendo avuto il piacere di ascoltare Earth Made Flesh sono rimasto tremendamente entusiasta della proposta di Wyrmwoods, one man band finlandese che sorprende con questo disco debutto. Come succede in questi casi non può che stupirmi il fatto che questo progetto non abbia ancora avuto una finestra più ampia dalla quale riuscire a far conoscere a meglio la sua proposta. Forse è proprio per via del fatto che si tratti del progetto personale di questo musicista, chiamato Nuurag- Vaarn, che la musica dei questo disco diventa imprevedibile e sorprendente. Questo è un lavoro dove l'originalità fa da patrona, dove ogni piccola sfumature non risponde a idee preconcette e dove l'intreccio di generi che vengono messi insieme finisce per dare nascita a un sorprendente mondo. Tutto questo sforzo musicale sembra andare incontro ad un'idea principale, cioè quella di costruire degli universi sonori assolutamente lontani dalla nostra realtà. Questo non è musica di tutti i giorni, questa è musica di istanti unici, di viaggi infra dimensionali o astrali.

Earth Made Flesh

Earth Made Flesh viene erroneamente, secondo il mio punto di vista, definito come un disco black metal. E' indubbio che questo genere sia molto presente ma non è assolutamente l'elemento predominante. Per me siamo di fronte a un disco di avantgarde metal o di advanced metal, cioè un lavoro che non rispetta alcuna imposizione, che avanza in direzioni insondabili con una sicurezza unica. Wyrmwoods non utilizza soltanto una serie di strumenti poco consoni per il genere suonato ma costruisce questo disco con rumori, con momenti nei quali sembra di essere di fronte ad un disco drone, altri dove sembra di essere di fronte ad un lavoro free jazz ed altri ancora dove l'idea principale fa pensare di ascoltare una serie di tracce di dark ambient. Più importante di questa presenza così variegata di idee musicali è il come vengono messe insieme, il come questi mattoni finisco per erigere la monumentale oscurità di questo LP. Nulla è semplice, nulla scontato ma tutto diventa coerente, tutto diventa parte di un'architettura stilistica assolutamente personale e ricca. 

Earth Made Flesh ha quelle idee che sono tanto rare quanto preziose. Vale a dire la premessa che tutto quello che viene fatto deve seguire una strada definita, una strada costruita dentro a dei mondi dove in pochi vogliono avventurarsi. Wyrmwoods è a tutti gli effetti un pioniere perché, anche se questo sentiero è stato già intrapreso da altri, non ha alcun scrupolo nel buttarsi nell'ignoto. Quello che ci restituisce è un disco di grandissima stazza che non assomiglia a nulla.

Wyrmwoods

Prendo due brani da questo lavoro ma tutti valgono un ascolto approfondito. Sono i due brani che mi hanno lasciato qualcosa in più.
Il primo è The Greater Festival of Masks. Se ci lasciassimo ingannare dalle prime note ci sembrerebbe du essere di fronte a un brano medievale che poi si evolve prendendo sembianze black metal, ma come ci insegna questo lavoro non bisogna mai lasciarsi guidare da pochi elementi. Le persistenti linee strumentali che si sviluppano sono preziose, ipnotiche, quasi psichedeliche. C'è la necessità di avvolgere l'ascoltatore, di farlo entrare in uno stato di trans per penetrare più imponentemente nella sua mente. Brano riuscitissimo.
Il secondo è The One as Caos an Egg. Brano di chiusura di questo disco, si dipinge di epica, e questa altezza non viene soltanto tradotta nell'aspetto temporale, essendo il brano più lungo dell'intero lavoro, ma anche nel modo nel quale è stato concepito. E' uno sviluppo orizzontale, una strada che bisogna seguire senza mai guardarsi indietro.


Purtroppo esempi musicali come Earth Made Flesh sono ancora pochi. Forse perché per riuscire a concepire dischi del genere bisogna avere un tipo di mentalità molto chiara e definita. La costruzione fatta da Wyrmwoods in questo lavoro è una costruzione assolutamente personale, dove il bagaglio musicale acquisito viene messo a servizio di quello che si vuole raccontare. Disco assolutamente interessante che invita a perdersi nelle sue note.

Voto 9/10
Wyrmwoods - Earth Made Flesh
Inverse Records
 Uscita 15.01.2018

domenica 11 marzo 2018

Drudkh - Їм часто сниться капіж: la poesia, sempre

(Recensione di Їм часто сниться капіж (They Often See Dreams About the Spring) dei Drudkh)


Una delle aspirazioni maggiori nella musica è quella di fare "la vita da musicista", cioè di vivere nella strada viaggiando da un punto a un altro continuamente, di ricevere il calore del pubblico di palco a palco o di locale a locale, di essere riconosciuto e di diventare una personalità tra sessioni fotografiche e riprese di video clip. Ma questo sogno non fa gola a tutti, perché c'è gente che nella musica vede soltanto l'urgenza di esprimere artisticamente una serie di pensieri, incurante poi dell'impatto che questo atto potrà avere sugli altri.

Il disco del quale vi parlo quest'oggi è un pretesto perfetto per entrare nella dimensione musicale degli ucraini Drudkh. L'album in questione s'intitola Їм часто сниться капіж, cioè "Loro vedono spesso dei sogni sulla primavera", ed è l'undicesimo disco della carriera della band. 
Visto che è la prima volta che mi occupo di una loro opera è validissimo fare certe premesse su questo gruppo. I Drudkh hanno un approccio personalissimo verso la musica. Non suonano mai dal vivo, non danno interviste, non si fanno fotografare. L'unica cosa che ha loro interessa è che i loro lavori vedano la luce e siano ascoltati da chi ne avrà il piacere di farlo. Nessun interesse più alto, nessuna voglia di fama, nessuna pretesa di percorrere il mondo grazie alla loro musica. Un discorso del genere è veramente particolare perché potrebbe sembrare che in questo modo la band si stia precludendo la possibilità di dare un peso maggiore alle proprie creazioni, di limitare l'impatto che la loro musica potrebbe avere, ma d'altra parte è un patto di coerenza verso le proprie intenzioni e il modo di vivere la musica. 
L'intelligenza della band si vede anche in altri aspetti, come quello dell'originalità della loro proposta e la condizione camaleontica dei loro lavori che, seppur appartenendo sempre al mondo del black metal, sono variopinti e mai soggetti a seguire un'unica direzione. Per quello qualche volta diventano crudi e diretti e in altri momenti vanno in una direzione molto più melodica o progressiva. Questo nuovo lavoro invece prende un'altra direzione: quella della poesia.

Drudkh

Їм часто сниться капіж è un disco che trova come fonte d'ispirazione l'opera di diversi poeti ucraini, cercando non soltanto di essere "poetico" nelle parole ma anche nella musica. Per quello le tracce di questo lavoro hanno una grande componente onirica e sono piene di sfumature dentro di quello che può essere il black metal. E in questo punto è fondamentale soffermarsi un po' a riflettere su questo genere musicale, molto spesso vittima di un numero elevatissimo di pregiudizi che lo portano a essere visto come un contenitore estremo di aggressività e oscurità ma che, in realtà, è un universo così ampio e vasto da dare nascita a una serie grandissima di progetti con motivazioni musicali molto diverse. Uno sforzo dove la bellezza viene lavorata in modo assolutamente diversa, con una concezione che è assolutamente evoluta con rispetto ad altre vie molto più semplici. In questo nuovo lavoro dei Drudkh tutta questa parte viene messa in evidenza. La poesia diventa plastica e materiale e, soprattutto, assolutamente non scontata, cosa fondamentale per essere vista con uno sguardo diverso da quello che normalmente si riserva a questo tipo d'arte.

Їм часто сниться капіж è un fedele riflesso di quello che è l'intenzione musicale dei Drudkh. Non è fare musica solo per il piacere di fare musica. Non è sfornare un disco dopo l'altro per essere perennemente un nome presente nella scena musicale internazionale. No, la loro intenzione è quella di creare con coerenza, di tradurre a modo loro quello che può aver toccato la loro sensibilità individuale e di restituirci questa sensibilità. Un'intenzione assolutamente riuscita.

Prendo due brani di questo lavoro dove, dal mio punto di vista, la poetica tocca le vette più alte.
Il primo è Nakryta Neba Burym Dakhom, brano che apre questo disco e che è il punto più alto. La capacità di dipingere dei quadri dinamici attraverso la musica è altissima, servendo così di sfondo perfetto per le parole. Un brano che funziona perfettamente come un invito ad ascoltare tutto il resto del lavoro. Gran brano.
Il secondo è Za Zoreyu Scho Striloyu Syaye. Sia nel caso di questo brano che di quello precedente c'è un aspetto comune, ed è il fatto che entrambi sono i brani più "tranquilli" di questo disco. Naturalmente questa "tranquillità" è molto relativa perché entrambi hanno una carica strumentale e ritmica non indifferenti ma se gli ho selezionati è perché entrambi riescono a dare quest'idea di ricerca musicale assolutamente non scontata. Entrambi scavano nella ricerca di melodie che si filtrano in mezzo al muro sonoro dando una dimensione tangibile alla musica della band.


Їм часто сниться капіж è uno di quei dischi da far ascoltare a chi pensa che il black metal ha solo una direzione. E' un disco che ha molta più cultura che tre quarti della musica mainstream attuale. E' un disco che fa capire perfettamente qual è l'intenzione dei Drudkh e il perché sono una delle realtà più interessanti del loro genere.

Voto 8,5/10
Drudkh - Їм часто сниться капіж
Season of Mist
Uscita 09.03.2018

venerdì 9 marzo 2018

Balmog - Vacuum: il suono del vuoto

(Recensione di Vacuum dei Balmog)


Personalmente, nella vita, odio gli estremismi. Mi sembra che chi cade nella trappola di abbracciare un determinato modo di pensare, subisce una specie di lavaggio del cervello che va completamente ad anulare la propria personalità. Forse è qualcosa che mi appartiene ma sempre sento la necessità di questionare tutto e di non dare mai per buono tutto quello che vedo o sento. Ma in questa linea di pensiero faccio un'eccezione per quanto riguarda la musica. Lì, molto spesso, sento che l'estremismo è un atto di coraggio, un modo di contestare quello che ci vogliono spacciare per vero. L'estremismo musicale cerca di essere un terremoto che rade al suolo le stupide convinzioni imposte.

Vacuum

Vacuum è il terzo LP degli spagnoli Balmog e anche se non si tratta a tutti gli effetti di un disco di metal estremo ci si avvicina abbastanza. Dentro a questa concezione musicale, che cerca di costruire uno scenario drastico e drammatico, la buona riuscita di questo lavoro dimostra che le loro idee hanno un'applicazione molto effettiva. Quello che si propongono viene compiuto in modo magistrale perché questo disco ha un potere magnetico. Occhio, che è facile affidarsi a frasi fatte come questa, ma in questo caso siamo di fronte a un lavoro che riesce a catturare l'ascoltatore regalando un'esperienza dinamica e intensa. Questo perché musicalmente siamo di fronte ad un lavoro tutt'altro che monocorde. Andiamo da una parte all'altra dentro quello che può essere l'universo dell'oscurità ma capendo che è necessaria una lettura profonda, che non si faccia prendere dalla prima impressione e basta.

Vacuum

La musica proposta dai Balmog è un black metal molto viscerale ma, come detto prima, non si basa su un'unica direzione. I brani che compongono Vacuum sono delle altalene musicali ed emotive dove l'oscurità prende più colori. Musicalmente questo si traduce nell'utilizzo delle dinamiche molto diverse dentro alla musica della band. Non c'è mai un'unica linea da seguire. Ci sono momenti di estrema disperazione, di blocchi sonori che sono macigni pronti a spezzare delle ossa. Ma ci sono anche altri momenti dove tutta la violenza dell'oscurità diventa introspettiva e profonda. Forse quelli sono i momenti meglio riusciti, punti dove i conti non vanno fatti con qualcosa di esterno ma bensì con noi stessi. Dal mio punto di vista è lì quando la musica della band da i migliori frutti. Dove si crea un legame fortissimo tra l'ascoltatore e i brani di questo lavoro.

Vacuum

Il vuoto è uno dei concetti più inquietanti che ci sia. Il pensiero di cessare completamente di esistere o di essere circondato dal nulla è un'idea che può portare a impazzire. Vacuum fa riferimento proprio a quello, al vuoto infinito che potrebbe circondarci e annullarci. I Balmog riescono a rendere quest'idea una realtà musicale, mai semplice, mai facile ma presente.

Balmog

Prendo due brani di questo lavoro dove le intenzioni della band sono molto chiare.
Il primo è Hodegetria dove l'idea di utilizzare pochi elementi ma nel modo giusto dà ancora più senso a quello che vuole esprimere la band. I giochi di arpeggi dissonanti di chitarra e l'utilizzo di voci registrate fanno di questo brano un discesa verso gli inferi interni di ciascuno di noi.
Il secondo è Come to the Pulpit. Anche in questo caso siamo di fronte a un brano che invece di sfruttare la quantità o la violenza della potenza musicale trova una maggiore effettività nell'affidarsi nell'utilizzo ricorrente di arpeggi di chitarra che ancorano il brano in un mondo musicale molto definito. Un brano un po' old school ma che compie perfettamente con i propri obiettivi. 


Vacuum è uno di quei dischi che ha la capacità di dimostrarci che la musica è una delle discipline artistiche che più facilmente riesce a tradurre sogni ed incubi di ognuno. L'oscurità diventa tangibile, respirabile, assimilabile. Tutto ciò senza diventare pesante. I Balmog costruiscono un mondo perfetto dentro alla densità della loro oscurità.

Voto 8,5/10
Balmog - Vacuum
War Anthem Records
Uscita 16.03.2018

mercoledì 7 marzo 2018

Sol Invictus - Necropolis: amare la città dei morti

(Recensione di Necropolis dei Sol Invictus)


La relazione che si crea con qualsiasi città è una relazione tanto complessa come quella che si può creare con qualsiasi persona. Ci sono aspetti che ci fanno innamorare, dettagli che sembrano essere stati fabbricati solo per noi. C'è una geografia urbana così ricca risultarci preziosa. C'è anche la storia, pensare che sulle stesse strade si sono vissuti degli eventi che hanno segnato delle epoche intere. Ma c'è anche l'odio. L'odio generato dalla cattiva organizzazione di una città, del suo caos, della crescita esponenziale, di come la città fatica ad adattarsi ai nuovi tempi. Tutto cambia, e non sempre le città sono pronte ad affrontare questi cambiamenti. Ma, alla fine, la relazione che si crea con una città è come la relazione che si crea con una persona, ci conquistano i pregi ed accettiamo i difetti. 

E' possibile che Necropolis sia l'ultimo lavoro dei Sol Invictus. Il gruppo che ruota intorno alla figura di Tony Wakeford, regalando trent'anni di carriera dentro a un mondo complesso ed interessante come il neofolk o dark folk, si ritrova a fare un viaggio all'interno di quello che sono le caratteristiche più interessanti della vita di un uomo, cioè la relazione con la città che ti accoglie e dove vivi da parecchio tempo se non proprio da sempre. In questo caso la città in questione è Londra e lo sguardo riservato da questo disco è abbastanza negativo come lo si può già intuire dal titolo di questo lavoro.
Ma non bisogna ingannarsi ascoltando questo lavoro perché, infondo, quello che cerca di trasmettere questo insieme di tracce è un atto d'amore, profondo e viscerale.
La Londra che viene raccontata in questo disco sembra una città sospesa nel tempo. Non è semplicemente la Londra attuale ma è una città che mescola la storia col presente, una città che dà l'impressione di cadere e ricadere nei vizi che la rendevano celebre in epoche passate. Per quello il paragone col cimitero, perché sembrerebbe che questa città mascherasse la sua voglia di modernità e di futuro in un affondarsi in quello che ormai esiste da tempo. Insomma, una città dove i morti hanno anche più forza dei vivi.

Necropolis

Necropolis è un lavoro che scorre come l'acqua del Tamigi, elemento molto presente in questo intero lavoro essendo personalizzato come un serpente che attraversa Londra e che è in eterno conflitto con un ratto, possibile metafora dei tempi attuali. Scorre veloce questo disco dei Sol Invictus, perché dev'essere così, perché la successione di tracce in realtà sembra far parte di un'unica traccia principale. Questa presenza così forte di un punto di riferimento che monopolizza il racconto di questo album conferma ancora la sensazione di essere un lavoro nato da un'urgenza di comunicare, di stabilire delle metafore interessanti tutte rivolte alla stessa idea: Londra poteva essere la capitale di un impero ed invece ci ritrova a soccombere sotto al peso di questo stesso impero. 
Se a livello di contenuti questa sensazione è assolutamente evidente lo diventa ancora di più grazie alla musica. Potremmo effettivamente continuare a parlare di neo folk o di dark folk ma c'è tanto altro ancora. Questo disco è costruito in modo prezioso, è un disco che senza alcun dubbio si ancora dietro alla voce e chitarra di Wakeford ma tutto quello che si sviluppa intorno diventa ancora più ricco. Tutta la serie di strumenti acustici, il gioco delle voci femminili, curatissime e preziose, le parte recitate, l'assenza di elementi di percussione importanti e le piccole contaminazioni di chitarra elettrica sembrano essere messe in moto dalla necessità di curare ulteriormente le idee dietro a questo disco. C'è bisogno del contrasto tra il "classico" o lo "storico" ed il "moderno". Ma la cosa più interessante è che la parte classica sembra avere il sopravento su quella moderna. Come se la città fosse vittima della propria storia, di quello che ha vissuto nei secoli, precludendosi così di vivere un vero futuro.

Necropolis

La capacità di Sol Invictus in questo lavoro è quella di portarci a vedere questa Londra decadente, questa città piena di storia dove sembra essere prevalso il negativo impedendo di glorificare tutto quello che potrebbe essere stato d'aiuto per avere un presente più luminoso ed un futuro assicurato di gioia e felicità. Necropolis è il racconto di una città governata dai morti, forse  non direttamente ma per il peso della loro presenza, della loro eredità che non può essere mascherata in alcun modo, neanche dietro alla tecnologia del nuovo millennio. Per arrivare a una conclusione del genere si capisce che chi ci racconta tutto quanto a vissuto la città nella sua pelle, l'ha vista insorgere per poi stabilizzarsi in una realtà che non era quella che doveva essere.

Sol Invictus

Essendo questo un lavoro che scorre inarrestabile riuscire ad apprezzarlo nella sua integrità diventa fondamentale. Per quello anche se posso indicare l'ascolto di singole tracce il consiglio rimane quello di lasciar andare il disco dall'inizio fino alla fine, soprattutto perché musicalmente il serpente disegnato finisce per mordersi la coda. In tutti casi metto l'accento su questi brani:
Nine Elms, brano che introduce l'ascoltatore nella necropolis, dopo che questo abbia attraversato il portale che, a tutti gli effetti, lo introduce dentro alla città. E' un brano molto breve ma fa già capire qual è l'ambiente che il viaggiatore incontrerà avendo oltrepassato la porta d'ingresso.
Turn Turn Turn, quando la città dimentica degli angoli preziosi questi angoli vanno a far parte dei pochi che riescono a viverli in pieno, quei pochi che sanno guardare la bellezza e l'importanza di quei posti. Questo brano esalta proprio quelle caratteristiche, quelle capacità di abbracciare quei posti preziosi.
The Last Man, che ci fa pensare a quello che ci portiamo di qualsiasi città, i suoni, i colori, i profumi. I ricordi sono anche delle sensazioni e questo è un brano ricco di sensazioni.


Necropolis è la voce di un folle innamorato di Londra. E' un lavoro che cerca di far capire quale sono le caratteristiche della città che devono essere esaltate e con le quali bisogna costruire il futuro. Questo disco dei Sol Invictus è in un certo modo una lezione che ci mostra come dovremmo vivere i rapporti con i luoghi dove decidiamo di vivere. E' anche una lezione di come il futuro deva essere costruito considerando sempre il passato. E anche se è un disco molto critico molto spesso sembra che questa città di morti sia molto più viva di tante altre città.

Voto 9/10
Sol Invictus - Necropolis
Prophecy Productions
Uscita 23.03.2018